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Noches de paz occidental (selección)

por Antonella Anedda, traducción de Alfonso Conde

Traducción del italiano por Alfonso Conde
Texto original de Antonella Anedda
Edición por Daniela Arias
Imagen: «Memorial» de Mohammed Sami

I

Veo desde la oscuridad
como desde el más radiante de los balcones.
El cuerpo es la segur: se abate sobre la luz
apartándola en silencio
hasta el pasaje más desnudo – al negro
de un tiempo que compone
en el espacio batido por mis pies
una tierra lentísima
– prometida –

II

No quería nombres para muertos desconocidos
pero quería que existieran
quería que una lengua anónima
– la mía –
hablara de muchas muertes anónimas.
Eso que llamamos paz
tiene solo el breve consuelo de la tregua.
Si nombre es también alcanzarse a sí mismo
ninguno de estos muertos ha alcanzado su destino.

No hay sino lugares, aquellos de una isla
desde los cuales escrutar el Continente
el oriente – sus guerras
el polvo que arrojan para confundir
el veredicto: no somos salvados
no salvamos
si no es con un coraje oblicuo
con un gesto
de mínima luz.

III

Para encontrar la razón de un verbo
porque en verdad aún no es el momento
y no sabemos si apresurarnos o escapar.

Haz que sea de tarde como si fuese diciembre
sobre las cajas apiladas en la rampa de la mudanza
dale forma a la oscuridad
mientras la comida se inflama en la pared.

Estas son las noches de paz occidental
en sus rayos vuela la angustia de las biografías
el uva oscuro de los retratos, los pergaminos de los nombres.

Nos defiende por un lado otra quietud
como un peso marino en el yute
doblado despacio, con desesperación.

IV

Corría hacia un refugio, se protegía la cabeza.
Pertenecía a una imagen cansada
no diferente de una mujer cualquiera
que la lluvia sorprende.

No quería yo hablar de la guerra
sino de la tregua
meditar sobre el espacio y por ello sobre los detalles
la mano que tantea el muro, la vela por un instante encendida
y – afuera – las fúlgidas hojas.
Un recinto más con espinas mezcladas entre otras espinas
espinas de tierra que queman los talones.

Aquello que se extiende entre el peso del antes
y el precipitar del después:
a esto lo llamo tregua
medida que vuelve medida el espanto
metro que no protege.

Junto a la tregua está el tránsito
de un lugar ir a otro lugar
sin una verdadera meta
sin que nada de ese movimiento pueda llamarse viaje
distracción de rostros
mientras bate la lluvia.

A la tregua como al tren le hace falta la llanura
un sueño de horizonte
con árboles elevados hacia el cielo
las únicas lanzas, centinelas solitarios.

VI

No existe inocencia en esta lengua
escucha cómo se fragmentan los discursos
como si también aquí hubiese guerra
una guerra diferente
pero guerra – en un tiempo sediento.

Por eso escribo con renuencia
con unos pocos cándalos de frases
aferrados a una lengua usual
aquella de la que dispongo para llamar
incluso allá abajo hasta la oscuridad
que sacude las campanas.

Hay una ventana en la noche
con dos siluetas oscuras adormecidas
pardas como los pájaros
cuyo cuerpo retrocede contra el cielo.

Escribo con paciencia
en la eternidad no creo
la lentitud me viene del silencio
y de una libertad – invisible –
que el Continente no conoce
la isla de un pensamiento que me impulsa
a restringir el tiempo
a darle espacio
inventando para aquella lengua su desierto.

La palabra se parte como leño
como un leño crepita de lado
mitad fuego
mitad abandono.

VIII

¿Quizá si morimos es por esto?
¿Para que el aire líquido de los días
sacuda de golpe el tiempo y le dé espacio
para que lo invisible, el fuego de las esperas
se abra de par en par en el aire
y queme aquello que nos parecía
nuestra única cosecha?

XIII

(para Nathan Zach)

También estos son versos de guerra
compuestos mientras arrecia, no lejos, no cerca
sentados al bies en una mesa alumbrada por lámparas
mientras se ciñen las puertas de palmas
también esto es un canto a Dios
que inclina la mirada sobre sus gusanos y nos arrolla
amados y no amados.
No una tregua – un don para esta tierra fulminada.

I

Vedo dal buio
come dal più radioso dei balconi.
Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce
scostandola in silenzio
fino al varco più nudo – al nero
di un tempo che compone
nello spazio battuto dai miei piedi
una terra lentissima
– promessa –

II

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.

Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

III

Per trovare la ragione di un verbo
perché ancora davvero non è tempo
e non sappiamo se accorrere o fuggire.

Fai sera come fosse dicembre
sulle casse innalzate sul cuneo del trasloco
dai forma al buio
mentre il cibo s’infiamma alla parete.

Queste sono le notti di pace occidentale
nei loro raggi vola l’angustia delle biografie
gli acini scuri dei ritratti, i cartigli dei nomi.

Ci difende di lato un’altra quiete
come un peso marino nella iuta
piegato a lungo, con disperazione.

IV

Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa.
Apparteneva a un’immagine stanca
non diversa da una donna qualsiasi
che la pioggia sorprende.

Non volevo dire della guerra
ma della tregua
meditare sullo spazio e dunque sui dettagli
la mano che saggia il muro, la candela per un attimo accesa
e – fuori – le fulgide foglie.
Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine
spine di terra che bruciano i talloni.

Ciò che si stende tra il peso del prima
e il precipitare del poi:
questo io chiamo tregua
misura che rende misura lo spavento
metro che non protegge.

Vicino a tregua è transito
da un luogo andare a un altro luogo
senza una vera meta
senza che nulla di quel moto possa chiamarsi viaggio
distrazione di volti
mentre batte la pioggia.

Alla tregua come al treno occorre la pianura
un sogno di orizzonte
con alberi levati verso il cielo
uniche lance, sentinelle sole.

VI

Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.

Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.

C’è una finestra nella notte
con due sagome scure addormentate
brune come gli uccelli
il cui corpo indietreggia contro il cielo.

Scrivo con pazienza
all’eternità non credo
la lentezza mi viene dal silenzio
e da una libertà – invisibile –
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto.

La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.

VIII

Forse se moriamo è per questo?
Perché l’aria liquida dei giorni
scuota di colpo il tempo e gli dia spazio
perché l’invisibile, il fuoco delle attese
si spalanchi nell’aria
e bruci quello che ci sembrava
il nostro solo raccolto?


XIII

(a Nathan Zach)

Anche questi sono versi di guerra
composti mentre infuria, non lontano, non vicino
seduti di sghembo a un tavolo rischiarato da lumi
mentre cingono le porte di palme
anche questo è un canto verso Dio
che chini lo sguardo sui suoi vermi e ci travolga
amati e non amati.
Non una tregua – un dono per questa terra folgorata.

(Titolo originale: Notti di pace occidentale)
I

Vedo dal buio
come dal più radioso dei balconi.
Il corpo è la scure: si abbatte sulla luce
scostandola in silenzio
fino al varco più nudo – al nero
di un tempo che compone
nello spazio battuto dai miei piedi
una terra lentissima
– promessa –

II

Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.

Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.

III

Per trovare la ragione di un verbo
perché ancora davvero non è tempo
e non sappiamo se accorrere o fuggire.

Fai sera come fosse dicembre
sulle casse innalzate sul cuneo del trasloco
dai forma al buio
mentre il cibo s’infiamma alla parete.

Queste sono le notti di pace occidentale
nei loro raggi vola l’angustia delle biografie
gli acini scuri dei ritratti, i cartigli dei nomi.

Ci difende di lato un’altra quiete
come un peso marino nella iuta
piegato a lungo, con disperazione.

IV

Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa.
Apparteneva a un’immagine stanca
non diversa da una donna qualsiasi
che la pioggia sorprende.

Non volevo dire della guerra
ma della tregua
meditare sullo spazio e dunque sui dettagli
la mano che saggia il muro, la candela per un attimo accesa
e – fuori – le fulgide foglie.
Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine
spine di terra che bruciano i talloni.

Ciò che si stende tra il peso del prima
e il precipitare del poi:
questo io chiamo tregua
misura che rende misura lo spavento
metro che non protegge.

Vicino a tregua è transito
da un luogo andare a un altro luogo
senza una vera meta
senza che nulla di quel moto possa chiamarsi viaggio
distrazione di volti
mentre batte la pioggia.

Alla tregua come al treno occorre la pianura
un sogno di orizzonte
con alberi levati verso il cielo
uniche lance, sentinelle sole.

VI

Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.

Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.

C’è una finestra nella notte
con due sagome scure addormentate
brune come gli uccelli
il cui corpo indietreggia contro il cielo.

Scrivo con pazienza
all’eternità non credo
la lentezza mi viene dal silenzio
e da una libertà – invisibile –
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto.

La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.

VIII

Forse se moriamo è per questo?
Perché l’aria liquida dei giorni
scuota di colpo il tempo e gli dia spazio
perché l’invisibile, il fuoco delle attese
si spalanchi nell’aria
e bruci quello che ci sembrava
il nostro solo raccolto?


XIII

(a Nathan Zach)

Anche questi sono versi di guerra
composti mentre infuria, non lontano, non vicino
seduti di sghembo a un tavolo rischiarato da lumi
mentre cingono le porte di palme
anche questo è un canto verso Dio
che chini lo sguardo sui suoi vermi e ci travolga
amati e non amati.
Non una tregua – un dono per questa terra folgorata.

I

Veo desde la oscuridad
como desde el más radiante de los balcones.
El cuerpo es la segur: se abate sobre la luz
apartándola en silencio
hasta el pasaje más desnudo – al negro
de un tiempo que compone
en el espacio batido por mis pies
una tierra lentísima
– prometida –

II

No quería nombres para muertos desconocidos
pero quería que existieran
quería que una lengua anónima
– la mía –
hablara de muchas muertes anónimas.
Eso que llamamos paz
tiene solo el breve consuelo de la tregua.
Si nombre es también alcanzarse a sí mismo
ninguno de estos muertos ha alcanzado su destino.

No hay sino lugares, aquellos de una isla
desde los cuales escrutar el Continente
el oriente – sus guerras
el polvo que arrojan para confundir
el veredicto: no somos salvados
no salvamos
si no es con un coraje oblicuo
con un gesto
de mínima luz.

III

Para encontrar la razón de un verbo
porque en verdad aún no es el momento
y no sabemos si apresurarnos o escapar.

Haz que sea de tarde como si fuese diciembre
sobre las cajas apiladas en la rampa de la mudanza
dale forma a la oscuridad
mientras la comida se inflama en la pared.

Estas son las noches de paz occidental
en sus rayos vuela la angustia de las biografías
el uva oscuro de los retratos, los pergaminos de los nombres.

Nos defiende por un lado otra quietud
como un peso marino en el yute
doblado despacio, con desesperación.

IV

Corría hacia un refugio, se protegía la cabeza.
Pertenecía a una imagen cansada
no diferente de una mujer cualquiera
que la lluvia sorprende.

No quería yo hablar de la guerra
sino de la tregua
meditar sobre el espacio y por ello sobre los detalles
la mano que tantea el muro, la vela por un instante encendida
y – afuera – las fúlgidas hojas.
Un recinto más con espinas mezcladas entre otras espinas
espinas de tierra que queman los talones.

Aquello que se extiende entre el peso del antes
y el precipitar del después:
a esto lo llamo tregua
medida que vuelve medida el espanto
metro que no protege.

Junto a la tregua está el tránsito
de un lugar ir a otro lugar
sin una verdadera meta
sin que nada de ese movimiento pueda llamarse viaje
distracción de rostros
mientras bate la lluvia.

A la tregua como al tren le hace falta la llanura
un sueño de horizonte
con árboles elevados hacia el cielo
las únicas lanzas, centinelas solitarios.

VI

No existe inocencia en esta lengua
escucha cómo se fragmentan los discursos
como si también aquí hubiese guerra
una guerra diferente
pero guerra – en un tiempo sediento.

Por eso escribo con renuencia
con unos pocos cándalos de frases
aferrados a una lengua usual
aquella de la que dispongo para llamar
incluso allá abajo hasta la oscuridad
que sacude las campanas.

Hay una ventana en la noche
con dos siluetas oscuras adormecidas
pardas como los pájaros
cuyo cuerpo retrocede contra el cielo.

Escribo con paciencia
en la eternidad no creo
la lentitud me viene del silencio
y de una libertad – invisible –
que el Continente no conoce
la isla de un pensamiento que me impulsa
a restringir el tiempo
a darle espacio
inventando para aquella lengua su desierto.

La palabra se parte como leño
como un leño crepita de lado
mitad fuego
mitad abandono.

VIII

¿Quizá si morimos es por esto?
¿Para que el aire líquido de los días
sacuda de golpe el tiempo y le dé espacio
para que lo invisible, el fuego de las esperas
se abra de par en par en el aire
y queme aquello que nos parecía
nuestra única cosecha?

XIII

(para Nathan Zach)

También estos son versos de guerra
compuestos mientras arrecia, no lejos, no cerca
sentados al bies en una mesa alumbrada por lámparas
mientras se ciñen las puertas de palmas
también esto es un canto a Dios
que inclina la mirada sobre sus gusanos y nos arrolla
amados y no amados.
No una tregua – un don para esta tierra fulminada.

Alfonso Conde es doctor en filosofía de la Universidad Nacional de Colombia y traductor literario del inglés, francés e italiano al español. Ha tenido la oportunidad de traducir, entre otras, obras de Flaubert, Woolf, Joyce, Yeats, Bierce, Hemingway, Camus y Anedda. En 2020, fue ganador de la beca de traducción de Idartes, en la categoría francés > español. En 2021, recibió la mención honorífica del IV Premio Internacional de Traducción de Poesía del italiano al español M’illumino d’immenso. Entre 2021 y 2024, ha participado como formador de traductores literarios en los talleres de Valestra Editorial y de la Universidad Central, así como en la Escuela distrital de traducción literaria. En esos mismos años, ha participado como jurado de las becas de traducción de Idartes y del Ministerio de Cultura. Actualmente dirige la sección Editorial y literaria de la Asociación Colombiana de Traductores Terminólogos e Intérpretes (ACTTI).